3 giu 2011

DIARIO DI UN BIMBO



Avrò avuto cinque o sei anni quando papà allestì il presepe più grande che avesse mai allestito, e che mai più, in seguito avrebbe uguagliato.
Casa nostra era situata in un edificio di vecchia costruzione della zona vecchia di Camogli, e si sviluppava tutto attorno ad un salone centrale e, oltre alle camere da letto e la cucina, aveva uno stanzino buio, stretto e lungo. In questo stanzino papà mise due panchette e, poggiate su di esse, alcune lunghe tavole piane. Su questa base montò poi uno scheletro di listelli sottili di legno per fare le montagne.
Su questo scheletro, a differenza di come si usa fare a Napoli, papà non usò pezzi di sughero, ma una carta speciale, a chiazze marroni e verdi. Questi fogli di carta si appallottolavano per spiegazzarli il più possibile, poi, aperte le pallottole, si incollavano sullo scheletro di legnetti con colla di farina fatta all'uopo, giacché a quei tempi le colle bianche “industriali” tipo Vinavil non esistevano. Il cielo lo realizzò con grandi fogli di carta blu notte, su cui aveva precedentemente spruzzato con un grosso pennello della pittura bianca all'acqua. E questo cielo non ricopriva solo la parte posteriore della scena, tra una montagna e l'altra, ma faceva una vera e propria volta coprendo anche il soffitto dello stanzino. Lungo le pedici delle montagne si snodava un sentiero che portava fino alla grotta, alla loro base. Davanti alla grotta, una spianata ricoperta di muschio fresco, “raccolto” specialmente per l'occasione.
Le figurine erano tantissime, di grandezza variabile, dalle più piccole, che si sarebbero collocate sulla stradina che scendeva dalla montagna, aumentandone sempre le dimensioni fino alle più grandi, che si collocavano davanti alla grotta, e quelle della sacra famiglia, il bue e l'asinello. Erano tutte di una squisita qualità artistica, e rappresentavano pastori e contadini, con i loro abiti caratteristici e portando doni di tutti i tipi, da un agnello caricato sulle spalle, a ceste di prodotti del campo. Ai due lati della grotta, c'erano due zampognari, che suonavano la ninna-nanna per il bambinello. Tutto lo scenario era illuminato da piccole lampadine elettriche, abilmente occulte. Alla mezzanotte, si portò il bambinello alla grotta con una piccola processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”.Fu davvero emozionante.
La tradizione del presepio si sarebbe mantenuta per anni, anche se riducendo le dimensioni secondo lo spazio disponibile,con le stesse figurine, che ci hanno seguito in giro per l'Italia fino a che papà, anziano e malato, smise di far il presepe e l'albero di natale, (che montava mamma col mio aiuto) divenne il re dei nostri natali. Non c'era, dunque, l'albero di Natale a gareggiare con quel fastoso presepe, ed i regali li portò, come per anni ed anni avvenire, la befana: il sei gennaio, la mattina mi svegliavo e li trovavo ai piedi del letto.
La notte della vigilia, cena strettamente di “magro”: maccheroni a vongole, dentice lesso con insalata di rinforzo, gamberetti fritti, frutta e i tipici dolci natalizi napoletani: roccocò, sosamielli, mostaccioli e paste di mandorla che ci mandavano i nostri familiari da Napoli. Il giorno di natale, poi, tortellini in brodo di pollo (“freschi, mi raccomando!” diceva sempre mamma “ quelli secchi sanno a cartone!”), il pollo con patate fritte, frutta ed una fettona di panettone: il Pandoro avrebbe soppiantato il panettone nelle feste natalizie solo molti anni dopo...
In quel periodo, papà era sempre di buon umore: avevano infatti iniziato la
costruzione dell'edificio da lui progettato, e che gli aveva procurato diversi grattacapi per ottenere la licenza di costruzione, per l'ostruzionismo del sindaco (papà era “foresto” straniero, e a Camogli solo costruivano i camogliesi), che gli aveva imposte modifiche dietro modifiche, un ultima quella della facciata, che DOVEVA essere in stile camogliese e no in marmo verde di Verona come lo aveva disegnato papà.
La prima cosa che si fece, nel cantiere, fu la costruzione di una baracca provvisoria in muratura (a quell'epoca non esistevano i containers) che serviva, sul retro, da magazzino per gli attrezzi e spogliatoio per gli operai e, sul davanti, di ufficio per il capo-cantiere, dove si conservavano i disegni ed i piani di costruzione.
Ricordo che, quando iniziò la fabbricazione della baracca, papà mi regalò una piccola cazzuola ed io mi divertì a collocare una piccola fila di mattoni, che evidentemente furono poco dopo rimossi e rimessi dai muratori, quelli veri.
Io ammiravo papà, “uomo dal multiforme ingegno”, come, avrei appreso anni dopo, lo avrebbe definito Omero: ingegnere, ma anche pittore e scultore (questo, ahimè fallito: delle sue dita solo uscì una testa della fortuna bendata), musicista, autore di canzoni (parole e musica), buon fotografo...
In quell'anno, fece ingresso in casa il mio primo libro: era il mio compleanno, ero a letto sul filo delle avventure di “Alì Babà e i quaranta ladroni”, raccontava la storia di un piccolo indù che veniva in possesso di un tesoro. Sarebbe stato quello il primo di una serie interminabile di titoli che, durante gli anni avvenire, si sarebbe sviluppata da quelli più giovanili fino ai grandi della letteratura mondiale.
Papà ci dette un grande spavento: una fredda sera d'inverno tornò a casa con la febbre alta. Il medico, chiamato immediatamente, diagnosticò una polmonite. Non ostante le cure prodigate, la febbre non diminuiva e la malattia non rimetteva. Arrivammo a temere i peggio, ma Fleming ci salvo! Il medico portò con se un certo numero di dosi della recentemente scoperta penicillina. Era ancora poco più di un farmaco sperimentale, e le fiale bisognava conservarle sotto ghiaccio (non essendo ancora diffuso il frigorifero in casa). Veniva, ogni sei ore, una suora infermiera a fare le iniezioni. Fu un incubo, ma, alla fine, la malattia fu sconfitta e papà poté tornare al lavoro.
A Camogli, esistevano due diverse associazioni scoutistiche: i Giovani Esploratori Italiani (GEI), aconfessionale, e la Associazione Scouts Cattolici Italiani, tra le quali esisteva una forte rivalità, contro lo spirito del fondatore dello scoutismo, Baden- Pwell, l'inglese che, nel 1907, aveva appunto arruolato ed addestrato giovani e bambini in formazioni di struttura paramilitare (anche senza nessuna intenzione di attuare in conflitti bellici), con il motto “Estote Parati”, siate (sempre) pronti.
Mamma mi iscrisse ai GEI. Andammo assieme a Genova dove, in un negozio specializzato, comprammo la divisa: maglietta verde, calzoni corti color Kaki e il cappellino, una calottina rotonda con la visiera. Mamma passò un intero pomeriggio a ricoprire, ago in mano, i raggi della calottina che erano viola (distintivi dell'Asci) con filo giallo (colore dei GEI). Mamma era sempre attenta a tutte le mie necessità ed anche a qualche capriccio: se ammiravo papà, amavo mamma con una tenerezza estrema: con me era sempre sorridente, pronta ad abbracciarmi e baciarmi anchesenza una ragione particolare, ad incoraggiarmi nelle mie imprese, a consolarmi se avevo un dispiacere...
E così divenni un “lupetto”: erano Lupetti i più piccoli, tra i sei e i dodici anni, poi diventavano Scouts e, dopo i diciassette, Rangers.
L'organizzazione interna dei lupetti era stata presa a prestito da “Il libro dell giungla” di Kipling: il gruppo si chiamava “branco”, il “capo-branco” era un Ranger che i lupetti chiamavano Akela, come, appunto, il capo del branco di lupi che, nel libro, aveva adottato il cucciolo d'uomo Mowgli. C'era poi il saggio Bagheera, la pantera nera, che era uno scaut e, nei branchi degli ASCI, Baloo, l'orso saggio che nel libro era il maestro di Mowgli, e che nella realtà era un sacerdote cattolico.
Le domeniche si facevano gite nei boschi del circondario, sempre e solo a piedi: si mangiava sull'erba, si giocava a “scalpo” (di due in due, di fronte come in un duello, con la sinistra dietro la schiena, si cercava di strappare all'avversario il fazzoletto che,tolto dal collo ed arrotolato, si portava alla cintura) o a “ruba bandiera”, si cantavanocanzoni tipiche dello scoutismo e ci si divertiva un mondo.
Una di queste gite fu per me memorabile: fu quando intorno ad un falò, feci “la promessa”: con la sinistra sul cuore e la destra alzata nel saluto tipico, la mano a
pugno, con l'indice ed il medio alzati, feci la mia “promessa”, promettendo di
rispettare le regole dello scoutismo, enunciate da Baden Powell.
Avevo cominciato la scuola, in un collegio privato gestito da suore Gianneline, dove avrei frequentato fino alla quarta elementare, con ottimi risultati.
Poi la famiglia si trasferì, per esigenze di lavoro di papà, a Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. Lì frequentai la quinta elementare nella scuola pubblica.
Che differenza! La scuola era una tipica scuola rurale: pulitissima, questo sì, ma con vecchi banchi solcati dai mille graffiti lasciati da orde di alunni precedenti, le solite carte geografiche appese al muro, e pochi studenti in ogni classe. Niente grembiulini neri, colletto bianco e fiocco azzurro: si andava a scuola con i vestiti di tutti i giorni.
Ricordo uno in particolare: uno spilungone (forse anche con qualche annetto in più dei miei dieci), sempre con il naso che gli colava e che si puliva con la manica del maglione. Maglione, sì, perché non c'era riscaldamento e l'inverno, ai piedi delle montagne, era abbastanza freddo. Addio dunque al clima mite della Riviera Ligure, e ad adattarsi alle nuove condizioni di vita...
Poi ci fu l'evento importante: il primo esame della mia vita (quanti avrei dovuto passarne nel futuro!): l'esame di quinta, o, come si diceva allora, di “licenza elementare”, che però, essendo la scuola, una scuola rurale, non dava automaticamente accesso alla scuola media. Dunque, un altro esame mi si presentava: l'esame di ammissione alle medie!
Per sostenere l'esame, dovevo spostarmi alla cittadina più vicina dove sì esistevano le secondarie, Novi Ligure. Mi presentai dunque in quella che sarebbe stata, o avrebbe dovuto essere, la mia scuola per i prossimi tre anni: in un collegio di religiosi, dove ritrovai l'ambiente lasciato a Camogli dalle Suore Giannelline. Superai l'esame di ammissione con ottimi voti e chiusi la mia prima tappa di studi.
Non ero più un bambino! Ero UNO STUDENTE!
Avrò avuto cinque o sei anni quando papà allestì il presepe più grande che avesse mai allestito, e che mai più, in seguito avrebbe uguagliato.
Casa nostra era situata in un edificio di vecchia costruzione della zona vecchia di Camogli, e si sviluppava tutto attorno ad un salone centrale e, oltre alle camere da letto e la cucina, aveva uno stanzino buio, stretto e lungo. In questo stanzino papà mise due panchette e, poggiate su di esse, alcune lunghe tavole piane. Su questa base montò poi uno scheletro di listelli sottili di legno per fare le montagne.
Su questo scheletro, a differenza di come si usa fare a Napoli, papà non usò pezzi di sughero, ma una carta speciale, a chiazze marroni e verdi. Questi fogli di carta si appallottolavano per spiegazzarli il più possibile, poi, aperte le pallottole, si incollavano sullo scheletro di legnetti con colla di farina fatta all'uopo, giacché a quei tempi le colle bianche “industriali” tipo Vinavil non esistevano. Il cielo lo realizzò con grandi fogli di carta blu notte, su cui aveva precedentemente spruzzato con un grosso pennello della pittura bianca all'acqua. E questo cielo non ricopriva solo la parte posteriore della scena, tra una montagna e l'altra, ma faceva una vera e propria volta coprendo anche il soffitto dello stanzino. Lungo le pedici delle montagne si snodava un sentiero che portava fino alla grotta, alla loro base. Davanti alla grotta, una spianata ricoperta di muschio fresco, “raccolto” specialmente per l'occasione.
Le figurine erano tantissime, di grandezza variabile, dalle più piccole, che si sarebbero collocate sulla stradina che scendeva dalla montagna, aumentandone sempre le dimensioni fino alle più grandi, che si collocavano davanti alla grotta, e quelle della sacra famiglia, il bue e l'asinello. Erano tutte di una squisita qualità artistica, e rappresentavano pastori e contadini, con i loro abiti caratteristici e portando doni di tutti i tipi, da un agnello caricato sulle spalle, a ceste di prodotti del campo. Ai due lati della grotta, c'erano due zampognari, che suonavano la ninna-nanna per il bambinello. Tutto lo scenario era illuminato da piccole lampadine elettriche, abilmente occulte. Alla mezzanotte, si portò il bambinello alla grotta con una piccola processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”.Fu davvero emozionante.
La tradizione del presepio si sarebbe mantenuta per anni, anche se riducendo le dimensioni secondo lo spazio disponibile,con le stesse figurine, che ci hanno seguito in giro per l'Italia fino a che papà, anziano e malato, smise di far il presepe e l'albero di natale, (che montava mamma col mio aiuto) divenne il re dei nostri natali. Non c'era, dunque, l'albero di Natale a gareggiare con quel fastoso presepe, ed i regali li portò, come per anni ed anni avvenire, la befana: il sei gennaio, la mattina mi svegliavo e li trovavo ai piedi del letto.
La notte della vigilia, cena strettamente di “magro”: maccheroni a vongole, dentice lesso con insalata di rinforzo, gamberetti fritti, frutta e i tipici dolci natalizi napoletani: roccocò, sosamielli, mostaccioli e paste di mandorla che ci mandavano i nostri familiari da Napoli. Il giorno di natale, poi, tortellini in brodo di pollo (“freschi, mi raccomando!” diceva sempre mamma “ quelli secchi sanno a cartone!”), il pollo con patate fritte, frutta ed una fettona di panettone: il Pandoro avrebbe soppiantato il panettone nelle feste natalizie solo molti anni dopo...
In quel periodo, papà era sempre di buon umore: avevano infatti iniziato la
costruzione dell'edificio da lui progettato, e che gli aveva procurato diversi grattacapi per ottenere la licenza di costruzione, per l'ostruzionismo del sindaco (papà era “foresto” straniero, e a Camogli solo costruivano i camogliesi), che gli aveva imposte modifiche dietro modifiche, un ultima quella della facciata, che DOVEVA essere in stile camogliese e no in marmo verde di Verona come lo aveva disegnato papà.
La prima cosa che si fece, nel cantiere, fu la costruzione di una baracca provvisoria in muratura (a quell'epoca non esistevano i containers) che serviva, sul retro, da ragazzino per gli attrezzi e spogliatoio per gli operai e, sul davanti, di ufficio per il capo-cantiere, dove si conservavano i disegni ed i piani di costruzione.Ricordo che, quando iniziò la fabbricazione della baracca, papà mi regalò una piccola cazzuola ed io mi divertì a collocare una piccola fila di mattoni, che evidentemente furono poco dopo rimossi e rimessi dai muratori, quelli veri.
Io ammiravo papà, “uomo dal multiforme ingegno”, come, avrei appreso anni dopo, lo avrebbe definito Omero: ingegnere, ma anche pittore e scultore (questo, ahimè fallito: delle sue dita solo uscì una testa della fortuna bendata), musicista, autore di canzoni (parole e musica), buon fotografo...
In quell'anno, fece ingresso in casa il mio primo libro: era il mio compleanno, ero a letto sul filo delle avventure di “Alì Babà e i quaranta ladroni”, raccontava la storia di un piccolo indù che veniva in possesso di un tesoro. Sarebbe stato quello il primo di una serie interminabile di titoli che, durante gli anni avvenire, si sarebbe sviluppata da quelli più giovanili fino ai grandi della letteratura mondiale.
Papà ci dette un grande spavento: una fredda sera d'inverno tornò a casa con la febbre alta. Il medico, chiamato immediatamente, diagnosticò una polmonite. Non ostante le cure prodigate, la febbre non diminuiva e la malattia non rimetteva. Arrivammo a temere i peggio, ma Fleming ci salvo! Il medico portò con se un certo numero di dosi della recentemente scoperta penicillina. Era ancora poco più di un farmaco sperimentale, e le fiale bisognava conservarle sotto ghiaccio (non essendo ancora diffuso il frigorifero in casa). Veniva, ogni sei ore, una suora infermiera a fare le iniezioni. Fu un incubo, ma, alla fine, la malattia fu sconfitta e papà poté tornare al lavoro.
A Camogli, esistevano due diverse associazioni scoutistiche: i Giovani Esploratori Italiani (GEI), aconfessionale, e la Associazione Scouts Cattolici Italiani, tra le quali esisteva una forte rivalità, contro lo spirito del fondatore dello scoutismo, Baden Pwell, l'inglese che, durante la guerra in Sud Africa contro i boeri aveva appunto arruolato ed addestrato giovani e bambini come messaggeri e portaordini.
Mamma mi iscrisse ai GEI, e così divenni un “lupetto”: erano Lupetti i più piccoli, tra i sei e i dodici anni,, poi diventavano Scouts e, dopo i diciassette, Rangers.
L'organizzazione interna dei lupetti era stata presa a prestito da “Il libro dell giungla” di Kipling: il gruppo si chiamava “branco”, il “capo-branco” era un Ranger che i lupetti chiamavano Akela, come, appunto, il capo del branco di lupi che, nel libro, aveva adottato il cucciolo d'uomo Mowgli. C'era poi il saggio Bagheera, la pantera nera, che era anche lui uno scaut e, nei branchi degli ASCI, Baloo, l'orso saggio che nel libro era il maestro di Mawgli, e che nella relatà era un sacerdote cattolico.
Le domeniche si facevano gite nei boschi del circondario, sempre e solo a piedi: si mangiava sull'erba, si giocava a “scalpo” (di due in due, di fronte come in un duello, con la sinistra dietro la schiena, si cercava di strappare all'avversario il fazzoletto che,tolto dal collo ed arrotolato, si portava alla cintura) o a “ruba bandiera”, si cantavano canzoni tipiche dello scautismo e ci si divertiva un mondo.
Una di queste gite fu per me memorabile: fu quando intorno ad un falò, feci “la promessa”: con la sinistra sul cuore e la destra alzata nel saluto tipico, la mano a
pugno, con l'indice ed il medio alzati, feci la mia “promessa”, promettendo di
rispettare le regole dello scoutismo, enunciate il secolo scorso da Baden Powell.
Avevo cominciato la scuola, in un collegio privato gestito da suore Gianneline, dove avrei frequentato fino alla quarta elementare, con ottimi risultati.
Poi la famiglia si trasferì, per esigenze di lavoro di papà, a Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. Lì frequentai la quinta elementare nella scuola pubblica.
Che differenza! La scuola era una tipica scuola rurale: pulitissima, questo sì, ma con vecchi banchi solcati dai mille graffiti lasciati da orde di alunni precedenti, le solite carte geografiche appese al muro, e pochi studenti in ogni classe. Niente grembiulini neri, colletto bianco e fiocco azzurro: si andava a scuola con i vestiti di tutti i giorni.
Ricordo uno in particolare: era nipote della proprietaria della casa che avevamo affittato, uno spilungone (forse anche con qualche annetto in più dei miei dieci), sempre con il naso che gli colava e che si puliva con la manica del maglione. Maglione, sì, perché non c'era riscaldamento e l'inverno, ai piedi delle montagne, era abbastanza freddo. Addio dunque al clima mite della Riviera Ligure, e ad adattarsi alle nuove condizioni di vita...
Poi ci fu l'evento: il primo esame della mia vita (quanti avrei dovuto passarne nel futuro!): l'esame di quinta, o, come si diceva allora, di “licenza elementare”, che però, essendo la scuola, appunto, una scuola rurale, non dava automaticamente accesso alla scuola media.
Un altro esame mi si presentava: l'esame di ammissione alle medie!
Per sostenere l'esame, dovevo spostarmi alla cittadina più vicina dove sì esistevano le secondarie, Novi Ligure. Mi presentai dunque in quella che sarebbe stata, o avrebbe dovuto essere, la mia scuola per i prossimi tre anni: in un collegio di religiosi, dove ritrovai l'ambiente lasciato a Camogli dalle Suore Giannelline. Superai l'esame di ammissione con ottimi voti e chiusi la mia prima tappa di studi.
Non ero più un bambino! Ero UNO STUDENTE!

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