21 giu 2011

MELANIA



Il “Corriere della Sera” di oggi, 21 giugno, titola così: “Ha ucciso Melania, indagato il marito”.
L'omicidio è sempre ingiustificato, ma può anche avere ragioni comprensibili, come il “delitto d'onore”, un tempo accettato in certe subculture, o come conseguenza di una lite che trascende, o il delitto per gelosia (come quello di Otello), o quello politico (Delitto Matteotti, ad esempio).
Ma il “caso” di Melania è, per me, oltre che ingiustificabile, sopratutto incomprensibile.
Incomprensibile perché non era la vittima, Melania, l'infedele, ma il boia che l'ha uccisa.
Incomprensibile perché nella cultura in cui viviamo esistono forme più civili di porre fine ad una storia che, per qualunque motivo e per colpa di qualunque dei due, è terminata.
Incomprensibile per il freddo calcolo con il quale è stato pianificato e portato a termine, freddo calcolo del tempo e del luogo.
Un delitto probabilmente premeditato, la cui vera vittima non è Melania, ma la piccola nata da un matrimonio apparentemente felice.

18 giu 2011

UNA GITA A NAPOLI



Si erano conosciuti per Internet su una pagina di un social network, poi l'amicizia virtuale si era trasformata in reale, grazie al fatto che entrambi vivevano in quello stupendo fazzoletto di terra in mezzo all'Atlantico che è l'isola di Gran Canaria. Luciana archeologa di professione, specialista in civilizzazioni preromane del Mediterraneo, lui appassionato amateur di archeologia, avevano trovato una ragione, un affinità culturale che aveva trapassato i limiti dell'amicizia virtuale per trasformarsi in un solida amicizia reale. Aveva trasferito su di lei tutto l'affetto che provava per la sua figlia reale, unica dopo cinque maschi, che, anni prima, aveva rotto tutti i contatti senza alcuna ragione che gli fosse dato intendere (“Dobbiamo parlare”, gli aveva scritto qualche anno addietro in risposta ad un suo e-mail col quale lamentava il silenzio ed il gelo che si era stabilito fra loro due ma non avano mai parlato...).
“Sei mai stata a Napoli?” le domandò.
“No...”
“Allora ti faccio una proposta. Quando prendi le ferie?”
“A giugno”
“Se vuoi, ti porto a Napoli per un paio di giorni. Ti va l'idea?”
Luciana accettò l'idea, ed ai primi di giugno partirono. Presero un volo diretto da Las Palmas ed arrivarono nella tarda mattinata all'aeroporto di Napoli Capodichino, dove affittarono una macchina.
Per il Corso Lucci arrivarono a piazza Garibaldi, completamente intasata di auto con centinaia di clacson che strombazzavano contemporaneamente a più non posso.
“Che chiasso infernale!” commentò Luciana.
“Che ci vuoi fare? Nella mente del napoletano esiste la strana convinzione che, suonando il clacson, la macchina che sta davanti a lui si muova...”
Poi il Rettifilo, per via Depretis arrivarono alla fine a piazza Municipio, difronte alla mole grigia del castello del Maschio Angioino. Parcheggiarono la macchina e si avviarono a piedi verso il castello.
“Che te ne pare, fin qui?” le chiese.
“Uhm...non è che abbia visto molto...però, fin qui, bene, mi piace.”
Per fortuna, quel giorno il Maschio Angioino era aperto ai visitanti, sicché, varcato il portale marmoreo aragonese, poterono vedere la famosa Sala dei Baroni, dove il papa Celestino V fece “il gran rifiuto” ed il successivo conclave elesse il famoso Bonifazio VIII, ed ammirare le sottili nervature di pietra che sostengono la enorme cupola.
“Qui si respira la storia!” mormorò Luciana.
“Sì, troppo spesso noi napoletani ci dimentichiamo chi siamo stati...”
Pranzarono in un buon ristorante non lontano, in via Santa Brigida, e poi, ripresa la macchina, senza mai lasciare il lungo mare, per via Nazario Sauro, poi via Partenope, poi per via Caracciolo fino al porticciolo di Margellina e la Villa Comunale. Al passare all'altezza del Castel dell'Ovo, come lanciato in mezzo all'azzurro del del mare su di una lingua di terra, lui le domandò:
“Sai cos'è quella massa di tufo giallastro che sembra navigare verso orizzonti lontani? È il Castel dell'Ovo, anteriore al Maschio Angioino, dove visse la regina Giovanna I.”
“Perché si chiama così?”
“Il nome deriva da un'antica leggenda secondo la quale un mago nascose nelle segrete dell'edificio un uovo che mantenesse in piedi l'intera fortezza. La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del catello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città di Napoli.”
In piazza Plebiscito, Luciana ammirò il colonnato della chiesa di San Francesco di Paola, che copiava, a scala ridotta, quello della Basilica di san Pietro a Roma, e si soffermò davanti alle sei statue a grandezza naturale nelle nicchie della facciata del Palazzo Reale, tre per ogni lato del cancello d'ingresso.
“Chi sono questi personaggi?”
“Sono i re delle diverse dinastie che si sono succedute sul trono di Napoli, dal più antico, Ruggero il Normanno, fino al più recente, Vittorio Emanuele II di Savoia, passando per Federico II di Svevia (che Dante chiama “il vento fresco di Soave”), Carlo D'Angiò (quello che fece costruire il castello che abbiamo visitato e che da lui prende il nome), Carlo V d'Asburgo, Carlo III di Borbone, il “re buono”, a cui si devono grandi opere di beneficenza come l'Albergo dei poveri, poi Gioacchino Murat, che in realtà fu solo Viceré, governando in nome del cognato Napoleone Bonaparte”.
“Quanti secoli! Sono stupita, non lo sapevo!”
“Già. Siamo più vecchi di voi...Il Regno di Spagna nasce al finale del secolo XV, mentre quello di Napoli agli inizi del XIII! Quasi tre secoli prima!”
“Via, non vorrai litigare per ragioni di storia, no?”
“Io, litigare con te? Macché! Era solo una battuta...Ma ora ti porto a pranzare...”

15 giu 2011

PER UNA CARA AMICA CHE SI SPOSA



Collis o Heliconii cultor, Uraniae genus, qui rapis teneram ad virum virginem, o Hymenaee Hymen, o Hymen Hymenaee; 5 cinge tempora floribus suave olentis amaraci, flammeum cape laetus, huc huc veni, niveo gerens luteum pede soccum; 10 excitusque hilari die, nuptialia concinens voce carmina tinnula, pelle humum pedibus, manu pineam quate taedam.
(Abitatore del colle eliconio, stirpe di Urania, che rapisci la tenera vergine per il marito, o Imeneo Imen, o Imen Imeneo; cingi le tempia di fiori dell’amaraco che profuma soave, lieto prendi il fiammante (velo), qui, vieni qui, calzando col niveo piede il fangoso zoccolo; eccitato dal gioioso giorno, cantando inni di nozze con voce tintinnante, batti il suolo coi piedi, con la mano scuoti la fiaccola di pino.)

BACHMANN, ovvero la stupidità di una candidata



Piaccia o non piaccia, bisogna riconoscere che gli USA sono una superpotenza la cui politica influenza tutti.
Per questo sono preoccupanti certe prese di posizione, come quella della Bechmann, per la quale «global warming» viene liquidato come una burla (i «gas-serra sono naturali, fanno bene»).
Se l'equipe di esperti che sicuramente le preparano le interviste ed i comizi hanno creduto di inserire questa opinione, vuol dire che una buona fetta di americani condivide questo punto di vista.
In che mani potremmo andare a finire...

10 giu 2011

IL PRESEPE DI PAPÀ



Avrò avuto cinque o sei anni quando mio padre allestì il presepe più grande che avesse mai allestito, e che mai più, in seguito avrebbe uguagliato.
La casa, situata in un edificio di vecchio edificio dalle scale con gli scalini sbrecciati della zona vecchia di Camogli, si sviluppava tutto attorno ad un salone centrale e, oltre alle camere da letto e la cucina, aveva uno stanzino buio, stretto e lungo. In questo stanzino mio padre mise due panchette e, poggiate su di esse, alcune lunghe tavole piane. Su questa base montò poi uno scheletro di listelli sottili di legno per fare le montagne.
Su questo scheletro, a differenza di come si usa fare a Napoli, non usò pezzi di sughero, ma una carta speciale, a chiazze marroni e verdi. Questi fogli di carta si appallottolavano per spiegazzarli il più possibile, poi, aperte le pallottole, si incollavano sullo scheletro di legnetti con colla di farina fatta all'uopo, giacché a quei tempi le colle bianche “industriali” tipo Vinavil non esistevano. Il cielo lo realizzò con grandi fogli di carta blu notte, su cui aveva precedentemente spruzzato con un grosso pennello della pittura bianca all'acqua per “fare” le stelle. E questo cielo non ricopriva solo la parte posteriore della scena, tra una montagna e l'altra, ma faceva una vera e propria volta coprendo anche il soffitto dello stanzino. Lungo le pedici delle montagne si snodava un sentiero che portava fino alla grotta, alla loro base. Davanti alla grotta, una spianata ricoperta di muschio fresco, “raccolto” specialmente per l'occasione.
Le figurine erano tantissime, di grandezza variabile: le più piccole si sarebbero collocate sulla stradina che scendeva dalla montagna, aumentandone sempre le dimensioni fino alle più grandi, che si collocavano davanti alla grotta, e quelle della sacra famiglia, il bue e l'asinello. Erano tutte di una squisita qualità artistica, e rappresentavano pastori e contadini, con i loro abiti caratteristici e portando doni di tutti i tipi, da un agnello caricato sulle spalle, a ceste di prodotti del campo. Ai due lati della grotta, c'erano due zampognari, che suonavano la ninna-nanna per il bambinello. Tutto lo scenario era illuminato da piccole lampadine elettriche, abilmente occulte. Alla mezzanotte, si portò il bambinello alla grotta con una piccola processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”.Fu davvero emozionante.

9 giu 2011

MATRIMONIO E CONVIVENZA - 2ª



In una sentenza del 15 febbraio di quest'anno, la Corte di Cassazione afferma la parità giuridica tra matrimoni e coppie di fatto.
Una sentenza storica che, oltre a garantire determinati diritti dei coniugi, come il diritto alla pensione, agli assegni familiari, alla mutua, garantisce anche un diritto fondamentale dei figli: quello del riconoscimento della paternità. Una sentenza saggia, che arriva forse tardi ma, si sa, meglio tardi che mai.
Avevamo già osservato in un post precedente come l'evidenza sia che moltissime coppie regolarmente sposate, in chiesa o al municipio, si rompono e che, moltissime coppie solo conviventi durano tutta la vita.
Ma da dove nasce, dunque, la necessità del matrimonio?
Il matrimonio è vecchio come la stessa civilizzazione, dalla semplice formula romana del “ubi tu Caius ego Caia” ai complicati riti attuali della Chiesa Cristiana Ortodossa, ai fastosi matrimoni dei principi e regnanti in realtà il matrimonio, il matrimonio ha sempre avuto una funzione per la società: il riconoscimento dei figli, giaccè, come dicevani i romani, "Mater semper certa, pater nunquam". Nel caso di principi e regnanti, è necessaria per la successione al trono, per i “plebei”, per poter usufruire dei benefici sociali.
Fino ad oggi, in questa nostra Italia patria, fra tante cose meravigliose, del diritto, un figlio nato da una coppia di fatto era un figlio illegittimo.
Questa sentenza viene a correggere questa ingiustizia di legge. Benvenuta sia!

6 giu 2011

DIARIO DI UNO STUDENTE



Eravamo rientrati a Napoli, città di origine delle famiglie, dopo anni di lontananza.
La decisione era stata presa dopo i fallimenti imprenditoriali di papà, prima con la truffa patita per un palazzo costruito a Serravalle Scrivia, del quale aveva fatto il progetto e diretto i lavori senza ricevere alcun compenso (gli sarebbero dovuti toccare in proprietà due piani dei sei costruiti ma, grazie ad un inghippo legale, glieli rifiutarono), poi di una avventura editoriale, che affondò perché il socio capitalista non pose a disposizione i soldi promessi. Da Napoli, un cognato di papà gli aveva scritto ripetutamente che la città era tutto un fermento di costruzioni, era tutto un cantiere, che si costruiva dappertutto, che sicuramente avrebbe trovato da fare...
Si lasciò convincere, e partimmo, noi tre e li gatto persiano rosso della famiglia.
E così, anno scolastico nuovo, scuola nuova: un Istituto di preti, una delle migliori scuole di Napoli.
La differenza rispetto alla scuola rurale di Serravalle che più mi colpì furono le aule: banchi mantenuti pulitissimi, senza un graffio o uno scarabocchio, lavagne ampie, grandi carte geografiche alle pareti. I professori, la maggior parte laici. L'ambiente, i compagni, medio-alta borghesia. Io mi trovavo perfettamente a mio agio, e subito feci amicizia con alcuni dei compagni di scuola.
In quella scuola avrei frequentato le tre medie, ginnasio e liceo, ed avrei fatto amicizie che sarebbero durate tutta la vita. Una in particolare, fu quella con Wannio, che, anni dopo sarebbe addirittura diventato padrino di battesimo del quarto dei miei figli, l'ultimo nato a Napoli. Purtroppo, le vicissitudini della mia vita, me li fecero perder di vista, anche per colpa di mia moglie, che partiva dal presupposto che le amicizie di una coppia solo dovessero essere quelle fatte insieme.
Una figura importante di quell'epoca fu il Prof. Mario Frezza, docente di lingua e letteratura italiana. Ottimo insegnante, molto preparato, era però lo spauracchio di tutti, attuali e precedenti studenti dell'Istituto. Non perché avesse mai alzato la voce, o usato una bacchetta (come facevano alcuni preti),ma perché la sua aria di perennemente disgustato, distante, schivo da qualsiasi rapporto informale, spaventava tutti. Eppure, fuori dalla classe, era un uomo molto alla mano: ricordo come una volta convocò me ed un altro compagno mio di classe per aiutarlo a correggere le bozze di un articolo che stava pubblicando. Ci portò a casa sua con la sua macchina, e per tutto il percorso non fece altro che commentare quanto potente e veloce fosse quell'automobile sportiva che conduceva spericolatamene per la strada tutta curve che portava dal piazzale Montesanto, nella zona bassa di Napoli, alla collina del Vomero dove abitava.
Le bozze del Prof. Frezza non furono le uniche che mi toccò correggere: anche l'ex preside dell'Istituto, docente di filosofia all'Università di Napoli, mi affibbiò il lavoro ingrato di correggere quelle di un suo lavoro su Plotino. Non erano le due paginette di Frezza, erano un centinaio almeno di pagine...
Anche durante i non rari periodi di difficoltà economica che la famiglia aveva vissuto, sempre avevo frequentato la scuola in istituti privati. Snobismo? Vanità? No, necessità, almeno per papà: lui e mamma non erano sposati e, all'anagrafe, il mio cognome era quello di mamma. Nelle scuole private, papà riusciva a convincere i
presidi ad iscrivermi con il suo cognome, ma ora, con la maturità alle porte,occorreva una soluzione più drastica e definitiva. Una sorella di papà, Maria, rimasta da poco vedova, mi adottò legalmente e, di conseguenza, presi il suo cognome, che era anche quello di mio padre. Obbiettivo conseguito! Da allora sarei stato un Rende di nome, anche se fin dalla nascita lo ero di fatto!
Zia Maria era solita recarsi a “fare i fanghi” in una località vicina, Pozzuoli, nota, oltre che per le sorgenti termali, per il curioso fenomeno del bradisismo, che la fa periodicamente innalzare e poi riabbassare, e per le rovine di un tempio di Serapide, del quale rimanevano, oltre la prima fila di pietre del muro di cinta, su di una pianta rotonda tre alte colonne e tutta una serie di colonne più basse. Ci portava sempre con se, mio cugino Ennio, due anni maggiore di me, e me per tutta la quindicina che lei passava a Pozzuoli.
E fu proprio a Pozzuoli che imparai a nuotare. Sì, perché, non ostante le tante estati passate sulla spiaggia di Camogli, non sapevo nuotare...Ma, come si dice, di necessità virtù: Pozzuoli non ha una vera a propria spiaggia e, per bagnarsi a mare, era necessario tuffarsi dalla diga foranea del porticciolo. Pere mio cugino Ennio, nuotatore esperto, non era nessun problema e, per me, fu giocoforza tuffarmi...e non annegare!
Finalmente arrivò la tanto temuta maturità.
Gli scritti.
Italiano: scelto il tema di critica ad una poesia (“Il sonetto”) di Metastasio, feci la critica comparandolo con l'omonima poesia di Carducci, che non portavamo nemmeno in programma, citandolo a memoria. Totale: quattro facciate complete di protocollo (non a metà, come si usava).
Latino: senza pena né gloria, ma me la cavai abbastanza bene.
Greco: quell'anno, il 1962, fu un disastro in tutta Italia: il testo giunto dal ministero aveva un errore di ortografia (mi sembra che mancasse una iota sottoscritta ad un omega) che rese un periodo assolutamente intraducibile. Meno male che la commissione esaminatrice ne tenne conto, sennò chissà come sarebbe finita, e non solo per me...
Agli orali, un piccolo incidente, che mi costò tre decimi in meno sulla media finale: portavamo, come libro di referenza, “I Malavoglia” di Verga. Io, lo confesso, non lo avevo mai neanche aperto (in realtà, non lo avevo nemmeno comprato...), sicché, quando la cerbera esaminatrice, dopo varie domande a cui risposi correttamente, mi buttò lì un “Mi parli del quarto capitolo de “I Malavoglia” e della sua importanza nello sviluppo del romanzo”, rimasi a bocca aperta. Ma che, aveva voglia di fregarmi a tutti i costi? Anche se avessi letto il libro, come potevo ricordare UN CAPITOLO in particolare, sopratutto con la tensione dell'esame?
Non ostante tutto, devo dire che fui soddisfatto della media finale di 9,7/10, anche se questo mi lasciò solo al secondo posto del successivo concorso regionale per la migliore maturità...ed “I Malavoglia” l'ho poi letto, e...non m'è piaciuto. Inconscio vizio d'origine? Forse...
La prima lezione di Chimica Generale 1 mi affascinò. Non tanto per il contenuto (avevo già letto, per conto mio, qualcosa sull'argomento), ma per la scenografia: l'aula grande con le grade affollate di studenti, il giovane professore (aveva solo trentun anni, ed era già titolare di cattedra e direttore dell'Istituto Chimico) che sarebbe rimasto il mio idolo per sempre, il bancone di mattonelle bianche dove si potevano montare esperienze, la grande Tavola Periodica di Mendeleeev appesa alla
parete alle spalle del professore...
L'aula era piena perché i corsi di Chimica Generale erano condivisi con gli studenti delle altre scienze (biologica, naturale, geologia): in realtà, alla facoltà di Chimica e Chimica Industriale ci eravamo immatricolati in novantadue, dei quali al quinto anno eravamo rimasti solo cinque: gli altri si erano “perduti” per strada: fuoricorso, o cambiati di facoltà.
All'epoca, esisteva solo l'Università Federico II”, e tutto ruotava nei vecchi edifici tra Corso Umberto I, Via Mezzocannone e la parallela Via Palladino. Ovviamente, il “regno” ella facoltà di medicina era il vecchio Policlinico Generale. Il Politecnico si sarebbe trasferito, qualche anno dopo, nelle nuove istallazioni di Fuorigrotta, e così non ci furono più “ingegneri” a condividere con noi le aule di matematica nell'Istituto di via Mezzocannone.
Gli anni dell'università passarono in fretta, e mi trovai alle porte della laurea senza un solo esame arretrato dei trentatré previsti dal piano di studi (al quarto anno avevo liquidato tutti e nove gli esami previsti dal piano di studi tra la sessione di giugno e quella di settembre, un vero tour-de-force).
Furono comunque anni epici, di corsa da un'aula all'altra di mattina, il pomeriggio i laboratori, la sera a studiare. Andare a cinema? Rarissimo. Uscire con la morosa? Se e quando si poteva, la domenica, le feste comandate e le vacanze estive, queste ultime sì, al mare insieme!

DIARIO DI UN EREMITA


Se ad uno la parola “eremita” evoca l'immagine di San Girolamo, ebbene, no, non sono quel tipo di eremita: non vivo in una grotta sperduta nel deserto, ma in un grazioso miniappartamento in una località turistica, non mangio solo erbe ma, pur senza essere un gourmet, faccio i miei tre pasti quotidiani come ogni figlio di madre e bevo litri di caffè. Questo miniappartamento (un saloncino-cucina, una stanza da letto matrimoniale ed un bagno) è situato in un edificio bianco dalle ringhiere ed il cornicione blu, abbarbicato a mezza costa ( quasi centro metri dal fondo valle) sulle pendici quasi a picco di lave brune, scisti azzurri e grigi e tufi marroni del barranco (gola) di Taurito, in Gran Canaria, che inoltrandosi per chilometri verso nordest tra alte colline, si apre a sudovest in una spiaggetta , poche decine di metri di arena grigia, sull'Atlantico.
Non sono un eremita in quel senso, dunque: tra l'altro, Internet mi serve da cordone ombelicale che mi mantiene in contatto con la mia adorata Italia con le edizioni digitali dei principali quotidiani italiani,e con tanti amici sui social networks che alleviano la mia solitudine di pensionato.
No, il mio eremitaggio è dovuto ad una scelta personale, dopo i tanti fallimenti della mia vita, incominciando per la professione.
Già da giovanissimo scrivevo: poesie, un romanzo incominciato e mai finito, un'opera teatrale, quest'ultima scritta solo perché c'era una scena in cui il protagonista dava un bacio alla protagonista e speravo di metterla in iscena avendo come protagonista me stesso e, come coprotagonista femminile, una ragazza per la quale avevo preso una cotta. E poi le lunghe chiacchierate su temi di letteratura e filosofia con mia cugina Wanda, che aveva lasciato la facoltà di lettere al quarto anno per sposarsi...
Però, verso i dodici anni, conobbi un ragazzo che possedeva una scatola del “Piccolo Chimico”, e mi affascinò. La mia “storia” con la chimica è stata quella di un matrimonio fallito: iniziò con l'infatuazione, poi l'amore, poi la routine, le delusioni professionali, poi la rottura definitiva, ed ora la catarsi con il ritorno alle origini.
Qui, nel mio rifugio, lontano dalla confusione della città, nella pace ed il silenzio, posso ascoltare la musica che a me piace, Chopin, Beethoven, Grieg, Tchaikowsky, leggere un buon libro...Ho anche ripreso a scrivere, poesie, e perfino un romanzo.
Dunque, eremita sì, ma monaco di clausura no: tutti i giorni scendo per una passeggiata al fondo del barranco, nel gran parco verdeggiante di palme e piante tropicali dei tutte le specie, e, al centro di una grande piscina con scivoli e giochi d'acqua, un'isola artificiale con una discoteca. E, sopratutto, folle di turisti, generalmente nordici, e frotte di bambini che si rincorrono, gridano, ridono, ed a me viene il magone e l'acuta nostalgia per i miei due nipotini che non vedo da anni.
Vivo qui in Gran Canaria da ormai tredici anni. Arrivammo qui tutti dalla provincia di Madrid, però poi la famiglia si è andato smembrando, uno ad uno sono tornati alla penisola. Sono rimasti qui solo due dei figli e, di questi, uno lo vedo solo a Natale.

5 giu 2011

MATRIMONIO E CONVIVENZA



Ieri, 4 di giugno, il Papa ha pronunciato un discorso in cui, fra l'altro, riferendosi alla convivenza, ha detto:
"Non è quella la vera famiglia: non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria o addirittura sostitutiva del matrimonio...si riduce l'amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi e senza apertura alla vita. Siamo chiamati a contrastare questa mentalità."
Il Papa fa il suo mestiere, ovviamente, ma sembra non conoscere il numero elevatissimo di coppie, regolarmente sposate in chiesa, che "scoppiano" e l'altrettanto elevatissimo numero di convivenza che durano felicemente tutta una vita.
Personalmente, io sono l'esempio vivente di queste ultime: i mie genitori, pur non essendo sposati, hanno formato una famiglia perfetta che è durata ben ventisei anni, e che è terminata solo per la morte prematura di mio padre ai suoi sessantacinque anni...
"Senza impegnarsi a costruire legami duraturi e senza apertura alla vita"? Ma chi glielo ha detto, a Sua Santità che in una convivenza non si possano costruire legami duraturi? E sì che in famiglia abbiamo vissuto tempi duri, ma non è certo bastato a rompere il loro vincolo di amore. Senza apertura allavita? Ma se io sono stato figlio unico solo perchè sono nato quando mamma aveva già quarantatrè anni, cioè "se le habia passado el arroz", come si dice in Ispagna: difficilmente avrebbe potuto concepire altri figli!

LA VECCHIAIA E LA MORTE




Ieri, commentando un mio post su Facebook nel quale mi lamentavo di dover constatare che sto invecchiando, una cara amica mi scriveva: "Caro mio la vecchiaia è un lusso...visto soprattutto che "l'alternativa" è assai meno piacevole..."
Non sono completamente d'accordo, e mi spiego: una placida morte (già vecchio, te ne vai a dormire e non ti svegli più, per esempio)non è in assoluto spiacevole. È come spegnere una luce, e chi la spegne non se ne rende nemmeno conto. Cos'ha questo di spiacevole?.
La morte puo essere terribile quando è lenta, o traumatica: il rivedere col pensiero tutta la vita, le cose buone, tante o poche, che ti ha dato, gli amici, la famiglia,ed essere coscienti ...questo sì che deve essere terribile: rimpianti, rimorsi, il sapere esattamente che non puoi più coregegere gli errori commessi, questo sì che mi da i brividi...

3 giu 2011

DIARIO DI UN BIMBO



Avrò avuto cinque o sei anni quando papà allestì il presepe più grande che avesse mai allestito, e che mai più, in seguito avrebbe uguagliato.
Casa nostra era situata in un edificio di vecchia costruzione della zona vecchia di Camogli, e si sviluppava tutto attorno ad un salone centrale e, oltre alle camere da letto e la cucina, aveva uno stanzino buio, stretto e lungo. In questo stanzino papà mise due panchette e, poggiate su di esse, alcune lunghe tavole piane. Su questa base montò poi uno scheletro di listelli sottili di legno per fare le montagne.
Su questo scheletro, a differenza di come si usa fare a Napoli, papà non usò pezzi di sughero, ma una carta speciale, a chiazze marroni e verdi. Questi fogli di carta si appallottolavano per spiegazzarli il più possibile, poi, aperte le pallottole, si incollavano sullo scheletro di legnetti con colla di farina fatta all'uopo, giacché a quei tempi le colle bianche “industriali” tipo Vinavil non esistevano. Il cielo lo realizzò con grandi fogli di carta blu notte, su cui aveva precedentemente spruzzato con un grosso pennello della pittura bianca all'acqua. E questo cielo non ricopriva solo la parte posteriore della scena, tra una montagna e l'altra, ma faceva una vera e propria volta coprendo anche il soffitto dello stanzino. Lungo le pedici delle montagne si snodava un sentiero che portava fino alla grotta, alla loro base. Davanti alla grotta, una spianata ricoperta di muschio fresco, “raccolto” specialmente per l'occasione.
Le figurine erano tantissime, di grandezza variabile, dalle più piccole, che si sarebbero collocate sulla stradina che scendeva dalla montagna, aumentandone sempre le dimensioni fino alle più grandi, che si collocavano davanti alla grotta, e quelle della sacra famiglia, il bue e l'asinello. Erano tutte di una squisita qualità artistica, e rappresentavano pastori e contadini, con i loro abiti caratteristici e portando doni di tutti i tipi, da un agnello caricato sulle spalle, a ceste di prodotti del campo. Ai due lati della grotta, c'erano due zampognari, che suonavano la ninna-nanna per il bambinello. Tutto lo scenario era illuminato da piccole lampadine elettriche, abilmente occulte. Alla mezzanotte, si portò il bambinello alla grotta con una piccola processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”.Fu davvero emozionante.
La tradizione del presepio si sarebbe mantenuta per anni, anche se riducendo le dimensioni secondo lo spazio disponibile,con le stesse figurine, che ci hanno seguito in giro per l'Italia fino a che papà, anziano e malato, smise di far il presepe e l'albero di natale, (che montava mamma col mio aiuto) divenne il re dei nostri natali. Non c'era, dunque, l'albero di Natale a gareggiare con quel fastoso presepe, ed i regali li portò, come per anni ed anni avvenire, la befana: il sei gennaio, la mattina mi svegliavo e li trovavo ai piedi del letto.
La notte della vigilia, cena strettamente di “magro”: maccheroni a vongole, dentice lesso con insalata di rinforzo, gamberetti fritti, frutta e i tipici dolci natalizi napoletani: roccocò, sosamielli, mostaccioli e paste di mandorla che ci mandavano i nostri familiari da Napoli. Il giorno di natale, poi, tortellini in brodo di pollo (“freschi, mi raccomando!” diceva sempre mamma “ quelli secchi sanno a cartone!”), il pollo con patate fritte, frutta ed una fettona di panettone: il Pandoro avrebbe soppiantato il panettone nelle feste natalizie solo molti anni dopo...
In quel periodo, papà era sempre di buon umore: avevano infatti iniziato la
costruzione dell'edificio da lui progettato, e che gli aveva procurato diversi grattacapi per ottenere la licenza di costruzione, per l'ostruzionismo del sindaco (papà era “foresto” straniero, e a Camogli solo costruivano i camogliesi), che gli aveva imposte modifiche dietro modifiche, un ultima quella della facciata, che DOVEVA essere in stile camogliese e no in marmo verde di Verona come lo aveva disegnato papà.
La prima cosa che si fece, nel cantiere, fu la costruzione di una baracca provvisoria in muratura (a quell'epoca non esistevano i containers) che serviva, sul retro, da magazzino per gli attrezzi e spogliatoio per gli operai e, sul davanti, di ufficio per il capo-cantiere, dove si conservavano i disegni ed i piani di costruzione.
Ricordo che, quando iniziò la fabbricazione della baracca, papà mi regalò una piccola cazzuola ed io mi divertì a collocare una piccola fila di mattoni, che evidentemente furono poco dopo rimossi e rimessi dai muratori, quelli veri.
Io ammiravo papà, “uomo dal multiforme ingegno”, come, avrei appreso anni dopo, lo avrebbe definito Omero: ingegnere, ma anche pittore e scultore (questo, ahimè fallito: delle sue dita solo uscì una testa della fortuna bendata), musicista, autore di canzoni (parole e musica), buon fotografo...
In quell'anno, fece ingresso in casa il mio primo libro: era il mio compleanno, ero a letto sul filo delle avventure di “Alì Babà e i quaranta ladroni”, raccontava la storia di un piccolo indù che veniva in possesso di un tesoro. Sarebbe stato quello il primo di una serie interminabile di titoli che, durante gli anni avvenire, si sarebbe sviluppata da quelli più giovanili fino ai grandi della letteratura mondiale.
Papà ci dette un grande spavento: una fredda sera d'inverno tornò a casa con la febbre alta. Il medico, chiamato immediatamente, diagnosticò una polmonite. Non ostante le cure prodigate, la febbre non diminuiva e la malattia non rimetteva. Arrivammo a temere i peggio, ma Fleming ci salvo! Il medico portò con se un certo numero di dosi della recentemente scoperta penicillina. Era ancora poco più di un farmaco sperimentale, e le fiale bisognava conservarle sotto ghiaccio (non essendo ancora diffuso il frigorifero in casa). Veniva, ogni sei ore, una suora infermiera a fare le iniezioni. Fu un incubo, ma, alla fine, la malattia fu sconfitta e papà poté tornare al lavoro.
A Camogli, esistevano due diverse associazioni scoutistiche: i Giovani Esploratori Italiani (GEI), aconfessionale, e la Associazione Scouts Cattolici Italiani, tra le quali esisteva una forte rivalità, contro lo spirito del fondatore dello scoutismo, Baden- Pwell, l'inglese che, nel 1907, aveva appunto arruolato ed addestrato giovani e bambini in formazioni di struttura paramilitare (anche senza nessuna intenzione di attuare in conflitti bellici), con il motto “Estote Parati”, siate (sempre) pronti.
Mamma mi iscrisse ai GEI. Andammo assieme a Genova dove, in un negozio specializzato, comprammo la divisa: maglietta verde, calzoni corti color Kaki e il cappellino, una calottina rotonda con la visiera. Mamma passò un intero pomeriggio a ricoprire, ago in mano, i raggi della calottina che erano viola (distintivi dell'Asci) con filo giallo (colore dei GEI). Mamma era sempre attenta a tutte le mie necessità ed anche a qualche capriccio: se ammiravo papà, amavo mamma con una tenerezza estrema: con me era sempre sorridente, pronta ad abbracciarmi e baciarmi anchesenza una ragione particolare, ad incoraggiarmi nelle mie imprese, a consolarmi se avevo un dispiacere...
E così divenni un “lupetto”: erano Lupetti i più piccoli, tra i sei e i dodici anni, poi diventavano Scouts e, dopo i diciassette, Rangers.
L'organizzazione interna dei lupetti era stata presa a prestito da “Il libro dell giungla” di Kipling: il gruppo si chiamava “branco”, il “capo-branco” era un Ranger che i lupetti chiamavano Akela, come, appunto, il capo del branco di lupi che, nel libro, aveva adottato il cucciolo d'uomo Mowgli. C'era poi il saggio Bagheera, la pantera nera, che era uno scaut e, nei branchi degli ASCI, Baloo, l'orso saggio che nel libro era il maestro di Mowgli, e che nella realtà era un sacerdote cattolico.
Le domeniche si facevano gite nei boschi del circondario, sempre e solo a piedi: si mangiava sull'erba, si giocava a “scalpo” (di due in due, di fronte come in un duello, con la sinistra dietro la schiena, si cercava di strappare all'avversario il fazzoletto che,tolto dal collo ed arrotolato, si portava alla cintura) o a “ruba bandiera”, si cantavanocanzoni tipiche dello scoutismo e ci si divertiva un mondo.
Una di queste gite fu per me memorabile: fu quando intorno ad un falò, feci “la promessa”: con la sinistra sul cuore e la destra alzata nel saluto tipico, la mano a
pugno, con l'indice ed il medio alzati, feci la mia “promessa”, promettendo di
rispettare le regole dello scoutismo, enunciate da Baden Powell.
Avevo cominciato la scuola, in un collegio privato gestito da suore Gianneline, dove avrei frequentato fino alla quarta elementare, con ottimi risultati.
Poi la famiglia si trasferì, per esigenze di lavoro di papà, a Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. Lì frequentai la quinta elementare nella scuola pubblica.
Che differenza! La scuola era una tipica scuola rurale: pulitissima, questo sì, ma con vecchi banchi solcati dai mille graffiti lasciati da orde di alunni precedenti, le solite carte geografiche appese al muro, e pochi studenti in ogni classe. Niente grembiulini neri, colletto bianco e fiocco azzurro: si andava a scuola con i vestiti di tutti i giorni.
Ricordo uno in particolare: uno spilungone (forse anche con qualche annetto in più dei miei dieci), sempre con il naso che gli colava e che si puliva con la manica del maglione. Maglione, sì, perché non c'era riscaldamento e l'inverno, ai piedi delle montagne, era abbastanza freddo. Addio dunque al clima mite della Riviera Ligure, e ad adattarsi alle nuove condizioni di vita...
Poi ci fu l'evento importante: il primo esame della mia vita (quanti avrei dovuto passarne nel futuro!): l'esame di quinta, o, come si diceva allora, di “licenza elementare”, che però, essendo la scuola, una scuola rurale, non dava automaticamente accesso alla scuola media. Dunque, un altro esame mi si presentava: l'esame di ammissione alle medie!
Per sostenere l'esame, dovevo spostarmi alla cittadina più vicina dove sì esistevano le secondarie, Novi Ligure. Mi presentai dunque in quella che sarebbe stata, o avrebbe dovuto essere, la mia scuola per i prossimi tre anni: in un collegio di religiosi, dove ritrovai l'ambiente lasciato a Camogli dalle Suore Giannelline. Superai l'esame di ammissione con ottimi voti e chiusi la mia prima tappa di studi.
Non ero più un bambino! Ero UNO STUDENTE!
Avrò avuto cinque o sei anni quando papà allestì il presepe più grande che avesse mai allestito, e che mai più, in seguito avrebbe uguagliato.
Casa nostra era situata in un edificio di vecchia costruzione della zona vecchia di Camogli, e si sviluppava tutto attorno ad un salone centrale e, oltre alle camere da letto e la cucina, aveva uno stanzino buio, stretto e lungo. In questo stanzino papà mise due panchette e, poggiate su di esse, alcune lunghe tavole piane. Su questa base montò poi uno scheletro di listelli sottili di legno per fare le montagne.
Su questo scheletro, a differenza di come si usa fare a Napoli, papà non usò pezzi di sughero, ma una carta speciale, a chiazze marroni e verdi. Questi fogli di carta si appallottolavano per spiegazzarli il più possibile, poi, aperte le pallottole, si incollavano sullo scheletro di legnetti con colla di farina fatta all'uopo, giacché a quei tempi le colle bianche “industriali” tipo Vinavil non esistevano. Il cielo lo realizzò con grandi fogli di carta blu notte, su cui aveva precedentemente spruzzato con un grosso pennello della pittura bianca all'acqua. E questo cielo non ricopriva solo la parte posteriore della scena, tra una montagna e l'altra, ma faceva una vera e propria volta coprendo anche il soffitto dello stanzino. Lungo le pedici delle montagne si snodava un sentiero che portava fino alla grotta, alla loro base. Davanti alla grotta, una spianata ricoperta di muschio fresco, “raccolto” specialmente per l'occasione.
Le figurine erano tantissime, di grandezza variabile, dalle più piccole, che si sarebbero collocate sulla stradina che scendeva dalla montagna, aumentandone sempre le dimensioni fino alle più grandi, che si collocavano davanti alla grotta, e quelle della sacra famiglia, il bue e l'asinello. Erano tutte di una squisita qualità artistica, e rappresentavano pastori e contadini, con i loro abiti caratteristici e portando doni di tutti i tipi, da un agnello caricato sulle spalle, a ceste di prodotti del campo. Ai due lati della grotta, c'erano due zampognari, che suonavano la ninna-nanna per il bambinello. Tutto lo scenario era illuminato da piccole lampadine elettriche, abilmente occulte. Alla mezzanotte, si portò il bambinello alla grotta con una piccola processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”.Fu davvero emozionante.
La tradizione del presepio si sarebbe mantenuta per anni, anche se riducendo le dimensioni secondo lo spazio disponibile,con le stesse figurine, che ci hanno seguito in giro per l'Italia fino a che papà, anziano e malato, smise di far il presepe e l'albero di natale, (che montava mamma col mio aiuto) divenne il re dei nostri natali. Non c'era, dunque, l'albero di Natale a gareggiare con quel fastoso presepe, ed i regali li portò, come per anni ed anni avvenire, la befana: il sei gennaio, la mattina mi svegliavo e li trovavo ai piedi del letto.
La notte della vigilia, cena strettamente di “magro”: maccheroni a vongole, dentice lesso con insalata di rinforzo, gamberetti fritti, frutta e i tipici dolci natalizi napoletani: roccocò, sosamielli, mostaccioli e paste di mandorla che ci mandavano i nostri familiari da Napoli. Il giorno di natale, poi, tortellini in brodo di pollo (“freschi, mi raccomando!” diceva sempre mamma “ quelli secchi sanno a cartone!”), il pollo con patate fritte, frutta ed una fettona di panettone: il Pandoro avrebbe soppiantato il panettone nelle feste natalizie solo molti anni dopo...
In quel periodo, papà era sempre di buon umore: avevano infatti iniziato la
costruzione dell'edificio da lui progettato, e che gli aveva procurato diversi grattacapi per ottenere la licenza di costruzione, per l'ostruzionismo del sindaco (papà era “foresto” straniero, e a Camogli solo costruivano i camogliesi), che gli aveva imposte modifiche dietro modifiche, un ultima quella della facciata, che DOVEVA essere in stile camogliese e no in marmo verde di Verona come lo aveva disegnato papà.
La prima cosa che si fece, nel cantiere, fu la costruzione di una baracca provvisoria in muratura (a quell'epoca non esistevano i containers) che serviva, sul retro, da ragazzino per gli attrezzi e spogliatoio per gli operai e, sul davanti, di ufficio per il capo-cantiere, dove si conservavano i disegni ed i piani di costruzione.Ricordo che, quando iniziò la fabbricazione della baracca, papà mi regalò una piccola cazzuola ed io mi divertì a collocare una piccola fila di mattoni, che evidentemente furono poco dopo rimossi e rimessi dai muratori, quelli veri.
Io ammiravo papà, “uomo dal multiforme ingegno”, come, avrei appreso anni dopo, lo avrebbe definito Omero: ingegnere, ma anche pittore e scultore (questo, ahimè fallito: delle sue dita solo uscì una testa della fortuna bendata), musicista, autore di canzoni (parole e musica), buon fotografo...
In quell'anno, fece ingresso in casa il mio primo libro: era il mio compleanno, ero a letto sul filo delle avventure di “Alì Babà e i quaranta ladroni”, raccontava la storia di un piccolo indù che veniva in possesso di un tesoro. Sarebbe stato quello il primo di una serie interminabile di titoli che, durante gli anni avvenire, si sarebbe sviluppata da quelli più giovanili fino ai grandi della letteratura mondiale.
Papà ci dette un grande spavento: una fredda sera d'inverno tornò a casa con la febbre alta. Il medico, chiamato immediatamente, diagnosticò una polmonite. Non ostante le cure prodigate, la febbre non diminuiva e la malattia non rimetteva. Arrivammo a temere i peggio, ma Fleming ci salvo! Il medico portò con se un certo numero di dosi della recentemente scoperta penicillina. Era ancora poco più di un farmaco sperimentale, e le fiale bisognava conservarle sotto ghiaccio (non essendo ancora diffuso il frigorifero in casa). Veniva, ogni sei ore, una suora infermiera a fare le iniezioni. Fu un incubo, ma, alla fine, la malattia fu sconfitta e papà poté tornare al lavoro.
A Camogli, esistevano due diverse associazioni scoutistiche: i Giovani Esploratori Italiani (GEI), aconfessionale, e la Associazione Scouts Cattolici Italiani, tra le quali esisteva una forte rivalità, contro lo spirito del fondatore dello scoutismo, Baden Pwell, l'inglese che, durante la guerra in Sud Africa contro i boeri aveva appunto arruolato ed addestrato giovani e bambini come messaggeri e portaordini.
Mamma mi iscrisse ai GEI, e così divenni un “lupetto”: erano Lupetti i più piccoli, tra i sei e i dodici anni,, poi diventavano Scouts e, dopo i diciassette, Rangers.
L'organizzazione interna dei lupetti era stata presa a prestito da “Il libro dell giungla” di Kipling: il gruppo si chiamava “branco”, il “capo-branco” era un Ranger che i lupetti chiamavano Akela, come, appunto, il capo del branco di lupi che, nel libro, aveva adottato il cucciolo d'uomo Mowgli. C'era poi il saggio Bagheera, la pantera nera, che era anche lui uno scaut e, nei branchi degli ASCI, Baloo, l'orso saggio che nel libro era il maestro di Mawgli, e che nella relatà era un sacerdote cattolico.
Le domeniche si facevano gite nei boschi del circondario, sempre e solo a piedi: si mangiava sull'erba, si giocava a “scalpo” (di due in due, di fronte come in un duello, con la sinistra dietro la schiena, si cercava di strappare all'avversario il fazzoletto che,tolto dal collo ed arrotolato, si portava alla cintura) o a “ruba bandiera”, si cantavano canzoni tipiche dello scautismo e ci si divertiva un mondo.
Una di queste gite fu per me memorabile: fu quando intorno ad un falò, feci “la promessa”: con la sinistra sul cuore e la destra alzata nel saluto tipico, la mano a
pugno, con l'indice ed il medio alzati, feci la mia “promessa”, promettendo di
rispettare le regole dello scoutismo, enunciate il secolo scorso da Baden Powell.
Avevo cominciato la scuola, in un collegio privato gestito da suore Gianneline, dove avrei frequentato fino alla quarta elementare, con ottimi risultati.
Poi la famiglia si trasferì, per esigenze di lavoro di papà, a Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. Lì frequentai la quinta elementare nella scuola pubblica.
Che differenza! La scuola era una tipica scuola rurale: pulitissima, questo sì, ma con vecchi banchi solcati dai mille graffiti lasciati da orde di alunni precedenti, le solite carte geografiche appese al muro, e pochi studenti in ogni classe. Niente grembiulini neri, colletto bianco e fiocco azzurro: si andava a scuola con i vestiti di tutti i giorni.
Ricordo uno in particolare: era nipote della proprietaria della casa che avevamo affittato, uno spilungone (forse anche con qualche annetto in più dei miei dieci), sempre con il naso che gli colava e che si puliva con la manica del maglione. Maglione, sì, perché non c'era riscaldamento e l'inverno, ai piedi delle montagne, era abbastanza freddo. Addio dunque al clima mite della Riviera Ligure, e ad adattarsi alle nuove condizioni di vita...
Poi ci fu l'evento: il primo esame della mia vita (quanti avrei dovuto passarne nel futuro!): l'esame di quinta, o, come si diceva allora, di “licenza elementare”, che però, essendo la scuola, appunto, una scuola rurale, non dava automaticamente accesso alla scuola media.
Un altro esame mi si presentava: l'esame di ammissione alle medie!
Per sostenere l'esame, dovevo spostarmi alla cittadina più vicina dove sì esistevano le secondarie, Novi Ligure. Mi presentai dunque in quella che sarebbe stata, o avrebbe dovuto essere, la mia scuola per i prossimi tre anni: in un collegio di religiosi, dove ritrovai l'ambiente lasciato a Camogli dalle Suore Giannelline. Superai l'esame di ammissione con ottimi voti e chiusi la mia prima tappa di studi.
Non ero più un bambino! Ero UNO STUDENTE!

29 apr 2011

BIG-BANG, TEMPO E CREAZIONE



Non sono un filosofo: i miei studi di filosofia al liceo classico, risalgono a quasi cinquanta anni fa. E poi, per essere più corretti, quello che si studiava era la storia della filosofia, più che filosofia pura e dura. Neppure sono un esperto in teologia, anche se, avendo frequentato dalla prima elementare alla terza liceo, scuole di religiosi, qualcosa sono riusciti a fermela entrare nella testa. Però, la mia formazione universitaria come chimico, e la mia vita professionale successiva, mi hanno dotato di una solida razionalità. Ed è proprio questa mia razionalità che mi fa osservare una serie di irrazionalità nel racconto biblico dell creazione e mi fa porre domande alla quali la mia povera filosofia ed ancor più povera teologia non riescono a dare risposte concrete,
Andiamo con ordine.
C`è un concetto oramai condiviso da tutti gli scienziati, e cioè che il tempo e lo spazio siano nati con il "Big Bang". Come conseguenza, è evidente che teorizzare sul "prima" del big bang è un po' come discutere sul sesso degli angeli, come si suol dire. Nel momento in cui si vuole vedere nello stesso Big Bang un atto creativo della divinità, Dio, Allah o qualunque altro Dio creatore, si cade evidentemente in una contraddizione in termini: il creatore, chiunque esso sia, deve necessariamente esistere prima della creazione, cioè prima della esistenza del tempo.
Una possibile soluzione dialettica, sarebbe quella di intendere l'eternità come un continuum atemporale, dove tutto é presente, altrimenti, se comprendessimo l'eternità come un tempo che, avendo un principio (il big-bang) non ha un termine. Ma, ancora una volta, cozziamo contro una contraddizioni in termini: il creatore esisteva prima del big bang, altrimenti non si capisce la creazione, quindi dobbiamo escludere l'idea dell'eternità come un trmpo che non ha termine.
La contraddizione esiste anche se accettiamo l'idea della creazione come creazione del Big Bang: se, come afferma il Credo cattolico "...Dio...creò il cielo e la terra", ed anche non dimenticando la frase tante volte pronunciata dai teologi, "i disegni di Dio sono imprescrutabili", ci si domanda perchè non sia stato creato l'universo già completamente formato, come lo conosciamo noi oggi. E, se si dimostra vera (per ora è considerata solo probabile) la teoria che l'universo finirà con un Big Crush, a cui seguirà un nuovo Big Bang, aumenta ancora il nostro dubbio sulla creazione divina da parte del Dio giudaico-cristiano, di Allah e di chi altri, in altre religioni, viene considerato come creatore.
Ma, ahimè, il Credo Niceno contiene un'altra "verità" purtroppo ben refutabile. L'ultimo versetto recita: "...credo nella resurrezione della carne".
Come avevo già scritto iin un post precedente (qv: del ), considerando la popolazioone attuale della terra, e l'origine da due soli individui, Adamo ed Eva, si può facilmente calcolare che il numero dei "risuscitati", se la fine del mondo accadesse ora, sarebbe tale ( ) che ognuno avrebbe a disposizione 1,5 metri quadrati della attuale superficie abitabile del pianeta. E se avvennisse fra, diciamo, mille anni? Considerando l'aumento esponenziale della popolazione, vedremmo "risuscitati" anche nuotando nelle turbolente acque degli oceani, o arrampicati fin sulla vetta dell'Everest!
Sono convinto che, se volessimo essere razionali (non è forse definito l'uomo come "animale razionale"?) dovremmo rivedere alcuni dei nostri articoli di fede...